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Cosa può sperare un ragazzo che nasce in un quartiere senz’anima, che vive in palazzo sporco, circondato da altri altrettanto sporchi, da mura grigie in un paesaggio grigio per una vita grigia, con intorno una società che preferisce distogliere lo sguardo e non interviene che quando bisogna rimproverare, proibire?”

François Mitterand - 1990
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Di seguito tutti gli interventi pubblicati sul sito, in ordine cronologico.
 
 
Di Franz (del 25/07/2006 @ 14:32:14, in 06-07 After Dublino, linkato 1423 volte)
Anteprima - Clicca per ingrandire oogi ultimo esame di questa sessione!!! bpr:29!! ..dal 6 al 23 di Agosto me ne volerò in quel di Cuba con la mia dolce metà!! che figata!!! buone vacanze people!!
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Di Franz (del 19/06/2006 @ 08:40:40, in 06-07 After Dublino, linkato 1569 volte)
Anteprima - Clicca per ingrandire La Costituzione non è una macchina che una volta messa in moto va avanti da sé. La Costituzione è un pezzo di carta, la lascio cadere e non si muove: perché si muova bisogna ogni giorno rimetterci dentro il combustibile; bisogna metterci dentro l’impegno, lo spirito, la volontà di mantenere queste promesse, la propria responsabilità. Per questo una delle offese che si fanno alla Costituzione è l’indifferenza alla politica. È un po’ una malattia dei giovani l’indifferentismo. «La politica è una brutta cosa. Che me n’importa della politica?». Quando sento fare questo discorso, mi viene sempre in mente quella vecchia storiellina che qualcheduno di voi conoscerà: di quei due emigranti, due contadini che traversano l’oceano su un piroscafo traballante. Uno di questi contadini dormiva nella stiva e l’altro stava sul ponte e si accorgeva che c’era una gran burrasca con delle onde altissime, che il piroscafo oscillava. E allora questo contadino ipaurito domanda ad un marinaio: «Ma siamo in pericolo?» E questo dice: «Se continua questo mare tra mezz’ora il bastimento affonda». Allora lui corre nella stiva a svegiare il compagno. Dice: «Beppe, Beppe, Beppe, se continua questo mare il bastimento affonda». Quello dice: «Che me ne importa? Unn’è mica mio!». Questo è l’indifferentismo alla politica.

È così bello, è così comodo! è vero? è così comodo! La libertà c’è, si vive in regime di libertà. C’è altre cose da fare che interessarsi alla politica! Eh, lo so anche io, ci sono... Il mondo è così bello vero? Ci sono tante belle cose da vedere, da godere, oltre che occuparsi della politica! E la politica non è una piacevole cosa. Però la libertà è come l’aria. Ci si accorge di quanto vale quando comincia a mancare, quando si sente quel senso di asfissia che gli uomini della mia generazione hanno sentito per vent’anni e che io auguro a voi giovani di non sentire mai. E vi auguro di non trovarvi mai a sentire questo senso di angoscia, in quanto vi auguro di riuscire a creare voi le condizioni perchè questo senso di angoscia non lo dobbiate provare mai, ricordandovi ogni giorno che sulla libertà bisogna vigilare, vigilare dando il proprio contributo alla vita politica...

Quindi voi giovani alla Costituzione dovete dare il vostro spirito, la vostra gioventù, farla vivere, sentirla come vostra; metterci dentro il vostro senso civico, la coscienza civica; rendersi conto (questa è una delle gioie della vita), rendersi conto che nessuno di noi nel mondo non è solo, non è solo che siamo in più, che siamo parte, parte di un tutto, un tutto nei limiti dell’Italia e del mondo. Ora io ho poco altro da dirvi. In questa Costituzione c’è dentro tutta la nostra storia, tutto il nostro passato, tutti i nostri dolori, le nostre sciagure, le nostre gioie. Sono tutti sfociati qui in questi articoli; e, a sepere intendere, dietro questi articoli ci si sentono delle voci lontane...
E quando io leggo nell’art. 2: «l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica, sociale»; o quando leggo nell’art. 11: «L’Italia ripudia le guerre come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli», la patria italiana in mezzo alle altre patrie... ma questo è Mazzini! questa è la voce di Mazzini!
O quando io leggo nell’art. 8:«Tutte le confessioni religiose sono egualmente libere davanti alla legge», ma questo è Cavour!
O quando io leggo nell’art. 5: «La Repubbllica una e indivisibile, riconosce e promuove le autonomie locali», ma questo è Cattaneo!
O quando nell’art. 52 io leggo a proposito delle forze armate: «l’ordinamento delle forze armate si informa allo spirito democratico della Repubblica», esercito di popoli, ma questo è Garibaldi!
E quando leggo nell’art. 27: «Non è ammessa la pena di morte», ma questo è Beccaria! Grandi voci lontane, grandi nomi lontani...

Ma ci sono anche umili nomi, voci recenti! Quanto sangue, quanto dolore per arrivare a questa costituzione! Dietro ogni articolo di questa Costituzione, o giovani, voi dovete vedere giovani come voi caduti combattendo, fucilati, impiccati, torturati, morti di fame nei campi di concentramento, morti in Russia, morti in Africa, morti per le strade di Milano, per le strade di Firenze, cha hanno dato la vita perché libertà e la giustizia potessero essere scritte su questa cartra. Quindi, quando vi ho detto che questa è una carta morta, no, non è una carta morta, è un testamento, è un testamenteo di centomila morti. Se voi volete andare in pellegrinaggio nel luogo dove è nata la nostra Costituzione, andate nelle montagne dove caddero i partigiani, nelle carceri dove furono imprigionati, nei campi dove fuorno impiccati. Dovunque è morto un italiano per riscattare la libertà e la dignità, andate lì o giovani, col pensiero, perché li è nata la nostra Costituzione.



P. Calamandrei, Discorso agli studenti milanesi
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Di Franz (del 17/05/2006 @ 10:06:28, in 06-07 After Dublino, linkato 1667 volte)
articolo da Repubblica.it (il video)

Imbarazzante equivoco per un giovane negli studi tv di Londra
Intervistato come direttore di un sito ed esperto di musica online

Alla Bbc per un colloquio di lavoro va in diretta scambiato per l'ospite

"Quando ho capito, ho cercato di rispondere alle domande"
Ora è una "star per caso". E lo invitano ad altre trasmissioni tv


LONDRA - E' entrato cardinale, è uscito Papa, in realtà era un semplice curato di campagna ma nessuno se n'era accorto. E' andata un po' così a un ragazzo originario del Congo che, a Londra, si è presentato presso gli studi della Bbc per un colloquio di lavoro e invece, per un equivoco epocale, è finito davanti alle telecamere, in diretta mondiale, intervistato da una giornalista che l'ha scambiato per un'altra persona. Per parlare di qualcosa di cui non sapeva assolutamente nulla.

Guy Goma voleva solo proporsi come tecnico informatico. Però: "E' successo tutto così in fretta, avevo appena messo la mia firma alla reception - racconta, nel suo inglese imparato da soli quattro anni, da quando cioè si è traferito a Londra - quando un tipo mi ha detto di seguirlo. Andava così di fretta che per stargli dietro mi sono messo a correre". E correndo correndo è arrivato in un camerino dove l'aspettava un truccatore. "Pensavo facesse parte del colloquio di lavoro, anche se in realtà ero un po' perplesso dal fatto che qualcuno volesse truccarmi...".

Dunque, trucco, poi dritto nello studio della diretta, davanti alla conduttrice della Bbc Karen Bowerman. Che senza alcuna incertezza lo ha presentato come Guy Kewney, direttore di Newswireless.net ed esperto di musica online. Lui, che di musica online non ne sa assolutamente niente. Ma l'istinto di sopravvivenza ha preso il sopravvento: "Ho strabuzzato gli occhi e per l'emozione e l'imbarazzo mi sono morso le labbra. Ma quando ho capito che ero in diretta, di fronte alle telecamere, che cosa potevo fare? Ho cercato di rispondere alle domande, e di stare calmo".

Prima domanda della conduttrice: "Che cosa ne pensa del verdetto di un tribunale britannico che ha posto fine alla battaglia legale tra Apple iTunes e Apple Corps, l'etichetta musicale dei Beatles?". Risposta, azzeccata lì per lì: "Sono molto sorpreso, questo verdetto mi è veramente caduto addosso, non me l'aspettavo".

Nel frattempo, il vero Kewney era arrivato. E stava seduto nella lobby del centro televisivo. Davanti a un monitor. E si è reso conto che il suo nome compariva sullo schermo sotto il volto di uno sconosciuto, il quale cercava, senza molto successo, di dare risposte coerenti alle domande dell'intervistatrice. A quel punto, l'equivoco si è sciolto.

All'inizio, la Bbc si è scusata dicendo che Goma era il tassista che, a intervista finita, avrebbe dovuto accompagnare a casa Kewney, e che per questa ragione aveva con sé una targa con su scritto il nome dell'esperto. Poi, invece, è emerso che l'impiegato mandato ad accogliere il direttore di Newswireless si era semplicemente recato nella reception sbagliata.

Goma si è detto "traumatizzato" dall'accaduto, ma gli è andata comunque bene: adesso è una specie di "star per caso" ed è stato invitato a partecipare ad altre trasmissioni televisive. Traendone una conclusione: "Forse è destino che io faccia carriera in tv". La Bbc, però, non ha fatto sapere se, alla fine, l'uomo abbia ottenuto il posto di lavoro per il quale si era presentato.

(16 maggio 2006)
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Di Franz (del 13/04/2006 @ 15:36:39, in 06-07 After Dublino, linkato 1567 volte)
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End of the line for the godfather

And Italy's top Mafia boss is arrested in Sicily

By Peter Popham in Rome (The Indipendent)

Published: 12 April 2006

He had not been heard from since he was seen guiding his ancient mum into a polling booth and instructing her audibly to "put a cross on the symbol for Forza Italia". In the wake of this tightest, most nail-biting of Italian elections, Silvio Berlusconi, the man of torrential eloquence, had dried up. The nation's journalists spent the best part of yesterday waiting for the gusher to resume.

Finally, after 48 hours of silence and seven hours later than first announced, he took to the stage in his 16th-century Roman headquarters, all gilt rococo cupids, and told the press that as far as he was concerned the election had been won by nobody.

"We do not believe," he said at a press conference repeatedly postponed during the day, "that today, as things stand, anyone can claim to have won." Why not? It was not just that the voting was very close. The results, he claimed, displayed "many, many murky aspects". The man they call the Cavalier was not going quietly.

It was the crowning tragi-comic moment of a historic day in which Italy finally got a new government. By now, after such twists and turns, he was an isolated figure as the congratulations rained in on the winner, Romano Prodi.

And the fact that an era was passing was underlined by the stunning news, just seven minutes after Mr Berlusconi's defeat became certain, that the most wanted mafioso in Sicily, the man from Corleone who has been capo di capi for 13 years and on the run for 30 more than that, had been arrested.

A political vacuum had opened up: Berlusconi, long tainted by his Mafia links, was on his way; and suddenly the biggest mobster of the lot was in the bag. Italy does not lose its capacity to amaze.

The day in fact began in the middle of the previous night. With provisional results pointing to a slim centre-left victory, Romano Prodi and his allies stood up and with most un-Prodi-like boldness seized the initiative.

Their supporters had waited five years for some good news: the Italian left were not going to let a little thing like a tied Senate and a whisker-thin advantage in the Chamber of Deputies poop their party. The big bash in Piazza del Popolo planned for yesterday evening had been canned as the good news curdled and Italy's general election grew ever tighter. But at 2.30 on a chilly morning, with a cutting scirocco wind coursing through Rome's cobbled lanes, the road outside Romano Prodi's campaign headquarters in Piazza Santi Apostoli, solid with Prodi supporters, exploded with joy as their leader took the stage and announced that the coalition had won.

But the words were hardly out of his mouth when Paolo Bonaiuti, Mr Berlusconi's spokesman, told reporters a few hundred yards away that Mr Berlusconi's centre-right coalition, the House of Liberties, was contesting the left's victory because "we have won the Senate". As the morning wore on, Mr Bonaiuti was proved wrong. The last Senate seats to be accounted for were the six given, for the first time, to expatriates, and although the idea of giving Italians abroad the vote was dreamt up by Mr Berlusconi's government in the belief that it would work to the right's advantage, four out of the six went to the centre-left. By the slimmest margin, 158 Senate seats to 156, the centre-left had scraped home.

It was at 11.21am that the centre-left coalition announced their success in the Senate - not a definitive result, but solid enough to go on. And then a very bizarre thing happened: out of the proverbial clear blue sky came the news that the most important living mafioso, Bernardo Provenzano, had been caught outside his home town of Corleone in western Sicily.

It was the strangest coincidence. The Mafia is a subject on which Mr Berlusconi has never spoken. On this subject, so close to the concerns of many millions of Italians, he has had nothing at all to say. And now, in the moment when Mr Berlusconi had fallen from grace, this bombshell. "It was the end of a season, the end of an era," remarked a journalist in Rome.

Back in Rome, as the wait for Mr Berlusconi's press conference got under way, the left and its supporters began ruminating on the close result. In the Chamber of Deputies, thanks to the premium given to the winning group, the majority is of 63 seats. It is in the Senate that Mr Prodi's problems lurk, because all legislation in Italy must be passed twice by both houses. Mr Prodi attempted to soothe fears, declaring that his government was "politically and technically strong", and would govern for five years. It would be a government for all Italians, he insisted, "including those who didn't vote for us."

For his part, Mr Berlusconi has difficulty accepting that the campaign is really over. At his press conference, after floating the idea of a recount, he thought of something else. How about a grand coalition? "I think that we maybe need to take the example of another European country, perhaps like Germany, to see if there is not a case for unifying our forces and governing in agreement," he suggested. People of good sense," he went on, "must think of a government in the interests of all, not one which ranges one half of the country against the other." Somebody will have to break it to him gently: he's out of power.

A Europhile most at home in the countryside of Bologna

Only rarely, while European Commission president, did Romano Prodi share a platform with his compatriot and rival Silvio Berlusconi - and only once did he seem to enjoy himself.

Mr Berlusconi, then Italian Prime Minister, had just committed a political gaffe by describing Western civilisation as superior to Islam. At a press conference in Brussels, Mr Prodi looked on in silence while an aggressive European press corps laid into Mr Berlusconi. As an irritable Italian premier dug himself deeper into a hole, the faintest ghost of a smile was seen on the face of the European Commission president.

The episode highlighted the contrast between Mr Berlusconi, the erratic, loud-mouthed, flashy media magnate, and Mr Prodi, the solid, cautious economics professor from Bologna.

When in office as European Commission president between 1999 and 2004, the nickname he liked was the Diesel. He saw himself as someone who, through methodical hard work, delivered decent results.

His minders debated how to improve Mr Prodi's communication skills, persuading him to give up speaking in English or French. Unfortunately compatriots said he did not sound that much better in Italian.

Mr Prodi, who studied at LSE, Harvard and Stanford, was born in 1939, number eight of nine brothers and sisters. Seven of his siblings went on to be university lecturers. This academic background counted in his favour during his first stint as Italian Prime Minister, when he was seen as the antidote to his corrupt professional political rivals. But in ultra-political Brussels he was criticised by the (non-Italian) media for his lack of charisma and failure to get a grip on the bureaucratic machine.

He is a committed European, but while in Brussels his main focus always seemed to be Italy. Whenever possible he quit the Belgian capital for his base in provincial Bologna, enjoying the countryside on his mountain bike. Terra e Vita, a weekly for Italian farmers, is his favourite magazine. And he once complained that, while he could tell an Italian's background and politics from a brief conversation, it was impossible to perform the same trick in multinational Brussels.

The job of Italian Prime Minister was the one he wanted. Now that he seems to have won it back, at the head of an extraordinarily broad and cumbersome coalition, the real hard work is set to begin.

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Di Franz (del 30/03/2006 @ 14:05:08, in 06-07 After Dublino, linkato 1921 volte)
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The Rise and Fall of Berlusconi

Is Italy's flamboyant leader going down in flames?

By Christopher Dickey
Newsweek International

April 3, 2006 issue - The lights were set up, the camera was ready. Italian Prime Minister Silvio Berlusconi stood in front of the Italian and European Union flags, ready for a portrait, but he stopped for a second to chat with an American reporter. "You know," he said, practicing a line he would use before a joint session of the U.S. Congress a few days later. "When I see the American flag, I don't see just a symbol of a country, I see a symbol of freedom and democracy." He smiled, satisfied. "And the European flag?" thet reporter asked. Berlusconi seemed a little taken aback. He paused and thought. "Under construction," he said.

Listening to the 69-year-old billionaire turned politician's increasingly frenzied politicking against the euro and Brussels, one might think "under destruction" would be more accurate—especially if Berlusconi manages to win his uphill bid for re-election on April 9 against former European Commission president Romano Prodi. Right now, however, that seems unlikely. Berlusconi's political machine is in meltdown. The candidate's first televised debate was a disaster. His coalition and his cabinet are out of control. Instead of tending to allies, he's battling the big business interests that ought to be his core support—all of them alarmed by Italy's seemingly unstoppable economic slide. Along with much of the rest of Europe, they hope more and more for a Prodi victory. But while many of Italy's ills can justly be laid at the door of its flamboyant prime minister, those that matter most—and most threaten the rest of Europe—will persist no matter who wins this year's closest and most important election.

It wasn't supposed to be this way, at least in Berlusconi's eye. He imagined winning a second term by sheer force of personality, thrusting himself onto the public stage to showcase his natural advantages: ebullience, charm and take-charge personal confidence. But that strategy seems to have backfired. Tense and defensive, he looks these days like he probably feels—a man whose hopes for staying a step ahead of Italy's vindictive prosecutors (by running the country) are coming to a potentially ugly end. The latest polls show him behind by 3.5 to 5 points, a gap that has lately widened rather than narrowed. The winning smile that has long been his emblem looks increasingly like a rictus. Berlusconi's last best hope is that the Socialists' famously soporific Prodi will so thoroughly bore the electorate—or the extremist fringes of Prodi's cobbled-together leftist coalition so appall it—that at the last moment Italians will throw up their hands and return to the long-running political carnival that has been Silvio's Circus.

It would be premature to count him out, of course. As the longest-serving Italian prime minister since World War II, he has brought admirable political stability to a country notorious for its lack thereof. Yet Europe wants him gone, for good reason. Partly it's his government's uncanny knack for infuriating European leaders, which at times seems almost pathological. At the height of the controversy over Muhammad cartoons earlier this year, one Berlusconi minister donned a T shirt emblazoned with a particularly insulting caricature of the prophet. (The minister resigned, but not before 14 people were killed in anti-Italian riots in Libya.) Harking back to 2003, when Berlusconi likened a German member of the European Parliament to a "kapo" in a concentration camp, a member of his cabinet just last week compared the Netherlands' legalization of euthanasia to Nazi eugenics. Even the government of Berlusconi's ally Tony Blair has been rattled by accusations that the Italian magnate involved the husband of a British cabinet member in money laundering and tax evasion, a charge both men deny.

The real danger that Berlusconi's Italy poses for Europe, however, is economic. Over his tenure, Europe's fourth largest economy has become its weakest link. From an already anemic growth rate of 1.8 percent in 2001, Italy slowed to 0.0 last year. Niente! The country faces such "profound, serious problems," new Central Bank Gov. Mario Draghi said this month, that it has "run aground." And worries are growing that the country will be an increasing drag on the rest of the European Union. "There's no doubt that Italy is the sick man of Europe," says economist Tito Boeri of the prestigious Bocconi University business school in Milan.

Is Berlusconi to blame? Of course not, he trumpets, pointing an accusatory finger at the economic crunch following the terrorist attacks on the United States in September 2001, a few months after he took office. "Europe probably suffered most, after what occurred, because of its inability to adjust," Berlusconi told NEWSWEEK last month. In his version of history, restrictions on debt and the rising strength of the euro are at the heart of the problem. "Four years ago," said Berlusconi, "to buy a euro, 82 cents of a U.S. dollar were enough. Today you need $1.20. What does this mean? That any European product is more expensive by 50 percent!" Thanks to Brussels, "our companies have their hands tied, are crushed, are squeezed between the hypervaluation of the euro, the many regulations they have to comply with, and competitions from new economic systems led by China and India which, among other things, resort to unfair competition."

Berlusconi doesn't go so far as to say he'd pull out of the euro zone, if re-elected. In his interview, he put it more obliquely: "I'll try to convince my colleagues to open their eyes and change, which is not very easy." Despite Berlusconi's hot rhetoric about the euro, he knows the cold realities. When Italy had the lira, sure, Rome could devalue whenever necessary to jump-start exports. But those tactics brought on double-digit inflation, forcing families and small businesses to become currency speculators if they wanted to survive. The sense of insecurity that created is one reason earlier governments were so shaky and short-lived. The EU stability pact that underwrites the euro has been in place the whole time Berlusconi has held office—and probably helped to keep him there, if only by forcing his government to keep its spending under some semblance of control. Berlusconi recognizes as well as anyone that Italy's economic decline would probably accelerate under more-populist policies. "Deficits would go sky-high," says Antonio Missiroli, chief policy analyst at the European Policy Center in Brussels. "You could end up with a sort of Argentina-like crisis."

In fact, Italy could end up there anyway, with or without Berlusconi. The man who made billions by building a private media empire likes to present himself as the paradigm of entrepreneurship and a great friend of business. And to be fair, he has introduced new flexibility into the labor market and managed to reform the pension system further. But while he talks about the bottom line, he's really about razzle-dazzle. What sounded like bold concepts for cutting taxes and government bureaucracy when he took office in 2001 now smacks of what some call "spaghetti economics." As Italy's economy has declined, Il Cavaliere has made almost no effort to introduce the sort of serious reforms that could reverse the slide. "In his five years there were neither big privatizations nor structural reforms," says Boeri. "His idea was just to raise public expenditure and cut taxes to revitalize demand." It didn't work. Many European businessmen now worry that, eventually, Italy's economy will deteriorate to such an extent that the country could be forced out of the euro zone even if Berlusconi doesn't really want to go that route—and even if Prodi, Mr. Europe, is elected.

In a sense, Italy is the proverbial apple that poisons the barrel. Consider the situation Prodi finds himself in. Even if he wins by a substantial margin, he will have a hard time taking the economic steps he considers necessary. Reason: thanks to changes in the electoral law pushed through by Berlusconi, Italy has returned to the old system of proportional representation that created such unstable coalitions in the past. "The country will be much less governable," says John Harper at the Bologna Center of Johns Hopkins University. Yet obviously, painful decisions must be made. Italy's trade deficit for 2005 surpassed ¤10 billion, a result of both skyrocketing energy costs and rising labor expenses. European budget deficits are supposed to be held to 3 percent of GDP annually. Several countries have exceeded that, but Italy, at about 4 percent, is among the worst. And its example makes it easier for other countries to justify slipping beyond the bounds.

Is Berlusconi to blame? Of course not, he trumpets, pointing an accusatory finger at the economic crunch following the terrorist attacks on the United States in September 2001, a few months after he took office. "Europe probably suffered most, after what occurred, because of its inability to adjust," Berlusconi told NEWSWEEK last month. In his version of history, restrictions on debt and the rising strength of the euro are at the heart of the problem. "Four years ago," said Berlusconi, "to buy a euro, 82 cents of a U.S. dollar were enough. Today you need $1.20. What does this mean? That any European product is more expensive by 50 percent!" Thanks to Brussels, "our companies have their hands tied, are crushed, are squeezed between the hypervaluation of the euro, the many regulations they have to comply with, and competitions from new economic systems led by China and India which, among other things, resort to unfair competition."

Berlusconi doesn't go so far as to say he'd pull out of the euro zone, if re-elected. In his interview, he put it more obliquely: "I'll try to convince my colleagues to open their eyes and change, which is not very easy." Despite Berlusconi's hot rhetoric about the euro, he knows the cold realities. When Italy had the lira, sure, Rome could devalue whenever necessary to jump-start exports. But those tactics brought on double-digit inflation, forcing families and small businesses to become currency speculators if they wanted to survive. The sense of insecurity that created is one reason earlier governments were so shaky and short-lived. The EU stability pact that underwrites the euro has been in place the whole time Berlusconi has held office—and probably helped to keep him there, if only by forcing his government to keep its spending under some semblance of control. Berlusconi recognizes as well as anyone that Italy's economic decline would probably accelerate under more-populist policies. "Deficits would go sky-high," says Antonio Missiroli, chief policy analyst at the European Policy Center in Brussels. "You could end up with a sort of Argentina-like crisis."

In fact, Italy could end up there anyway, with or without Berlusconi. The man who made billions by building a private media empire likes to present himself as the paradigm of entrepreneurship and a great friend of business. And to be fair, he has introduced new flexibility into the labor market and managed to reform the pension system further. But while he talks about the bottom line, he's really about razzle-dazzle. What sounded like bold concepts for cutting taxes and government bureaucracy when he took office in 2001 now smacks of what some call "spaghetti economics." As Italy's economy has declined, Il Cavaliere has made almost no effort to introduce the sort of serious reforms that could reverse the slide. "In his five years there were neither big privatizations nor structural reforms," says Boeri. "His idea was just to raise public expenditure and cut taxes to revitalize demand." It didn't work. Many European businessmen now worry that, eventually, Italy's economy will deteriorate to such an extent that the country could be forced out of the euro zone even if Berlusconi doesn't really want to go that route—and even if Prodi, Mr. Europe, is elected.

In a sense, Italy is the proverbial apple that poisons the barrel. Consider the situation Prodi finds himself in. Even if he wins by a substantial margin, he will have a hard time taking the economic steps he considers necessary. Reason: thanks to changes in the electoral law pushed through by Berlusconi, Italy has returned to the old system of proportional representation that created such unstable coalitions in the past. "The country will be much less governable," says John Harper at the Bologna Center of Johns Hopkins University. Yet obviously, painful decisions must be made. Italy's trade deficit for 2005 surpassed ¤10 billion, a result of both skyrocketing energy costs and rising labor expenses. European budget deficits are supposed to be held to 3 percent of GDP annually. Several countries have exceeded that, but Italy, at about 4 percent, is among the worst. And its example makes it easier for other countries to justify slipping beyond the bounds.

Italy's prime minister thus looks increasingly isolated. "Berlusconi is running alone this time," says Gianfranco Pasquino, author of a dozen books on Italian politics. His coalition partners have not only distanced themselves, they've taken to sniping at him. Fellow conservatives in other European countries are clearly uncomfortable. Germany's former chancellor Helmut Kohl, a key architect of European construction and the mentor of current Chancellor Angela Merkel, recently endorsed Berlusconi's opponent as "my friend" and said that only Prodi is "capable of restoring Italy to its place in Europe." In case anyone missed the point, Kohl underlined it: "Let me be clear: I am here to support a great European. [Prodi] is an excellent example of cosmopolitan Italy, linked to his roots but capable of looking beyond borders."

Under the circumstances, it is perhaps natural that Berlusconi would seek solace elsewhere. President George W. Bush, for one, still calls him "my friend." For Berlusconi's vocal support of democracy, his talk of free enterprise and for committing thousands of Italian troops to support the 2003 American-led occupation of Iraq, he won a standing ovation from the Republican-dominated Congress in Washington last month. The moment probably marked the high point of his election campaign back home, if only because it's rare that Italians have seen that kind of homage paid to one of their leaders. For a day or so, he was called l'Americano in the press with some grudging admiration. Meanwhile, the mercurial prime minister began a pullout last year of all the Italian forces in Iraq, amid concerns that Italy will be targeted by terrorists just as Spain was in 2004 and Britain last year.

After Berlusconi came back to Italy, both friends and enemies expected him to come on strong in the first televised debate with Prodi. But his performance went flat. Since then he's complained of back pain, and even taken enforced time off. Can Berlusconi recover his élan as well as his health? Only a few days are left in the campaign. April 3 brings another TV debate, in which the prime minister will be fighting for his political survival. The battle will be watched intently, at home and abroad. Detractors rooting for his fall cannot help but be mindful, however, that Berlusconi's passing would in many ways be only a prelude to further trouble. His escapades and pratfalls have been a diversion from Italy's grave, and growing, problems for far too long. Indeed, the country's difficulties are so formidable that any successor would have to be almost superhuman to overcome them. Is Prodi that man? Or will he find that, in his struggle to do the job that Berlusconi ducked, Italians do not want to follow? The stability that Berlusconi brought to the landscape might very well give way to the fractured, internecine politics of yore, with little agreement on where the country should go or how it should get there. This, ultimately, might be Berlusconi's legacy. Win or lose, Europe will be dealing with him and his works for many years to come.

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Traduzione (di Riccardo Rita):

Le luci erano sistemate, la macchina fotografica pronta. Il primo ministro italiano Silvio Berlusconi era in piedi, in posa per una foto davanti alle bandiera italiana ed europea, ma per un secondo ha fermato tutto e si è messo a chiacchierare con un reporter americano. “Sa,” gli ha detto, con un atteggiamento simile a quello che poi avrebbe adottato qualche giorno dopo davanti alla sessione plenaria del Congresso USA. “Quando guardo la bandiera americana, non vedo solo il simbolo di una nazione: vedo il simbolo della libertà e della democrazia”. Poi ha sorriso, soddisfatto. “E che mi dice della bandiera europea?” gli ha chiesto il reporter. Berlusconi è sembrato colto un po’ di sorpresa. Si è fermato un attimo e ha pensato. “Under construction” ha risposto infine.

Ascoltando il sessantanovenne ultramiliardario trasformatosi in un uomo politico sempre più esagitato contro l’Euro e Bruxelles, uno potrebbe pensare che “under destruction” sarebbe più appropriato, specialmente se Berlusconi vincerà la sua dura battaglia contro l’ex presidente della Commissione europea Romano Prodi per la rielezione il prossimo 9 aprile. Cosa che per ora, in ogni caso, sembra difficile. La macchina politica di Berlusconi appare in disfacimento. La prima sfida televisiva con Prodi è stata un disastro. La sua colazione e il suo esecutivo sono fuori controllo.

Invece di cercare alleanze, il Cavaliere sta ingaggiando una battaglia contro quegli stessi poteri economici che avrebbero dovuto essergli di sostegno, ormai allarmati dall’apparentemente inarrestabile declino economico. Insieme alla gran parte dell’Europa, anche loro sperano sempre più in una vittoria di Prodi. Ma mentre molti dei mali italiani possono essere giustamente imputati al suo funambolico primo ministro, quelli che contano di più – e che più interessano al resto d’Europa – rimarranno lì, chiunque sarà il vincitore di queste prossime, importantissime elezioni.

Non ci si aspettava che le cose andassero così, o almeno non se l’aspettava Berlusconi. Lui immaginava di ottenere un secondo mandato con la forza bruta della sua personalità, gettandosi nell’arena pubblica per sciorinare le sue doti naturali: entusiasmo trascinante, fascino e capacità di entrare in sintonia con le persone. Ma questa strategia sembra essersi ritorta contro di lui. Teso e sulla difensiva, in questi giorni – con ogni probabilità – appare proprio come si sente: un uomo la cui speranza (restando alla guida del paese) di rimanere un passo più avanti dei vendicativi procuratori della Repubblica si sta avviando verso una potenziale brutta fine. Gli ultimi sondaggi lo danno indietro da 3.5 a 5 punti percentuali, un distacco che ultimamente si è accentuato invece di ridursi. Il sorriso vincente che per tanto tempo è stato il suo emblema va assomigliando sempre di più a una smorfia. L’ultima speranza di Berlusconi è che il notoriamente soporifero Prodi annoi così tanto gli elettori – o che le frange estremiste della coalizione di sinistra li spaventino a tal punto – che all’ultimo momento gli italiani decidano di rimettersi nelle mani di quell’infaticabile carnevale politico che è stato il Circo di Silvio.

Naturalmente sarebbe prematuro dare per spacciato Berlusconi. È stato il presidente del Consiglio che, dalla fine della seconda guerra mondiale, più a lungo è rimasto in carica, portando una notevole stabilità politica in una nazione dove, notoriamente, ce n’è sempre stata poca. Eppure l’Europa vuole che se ne vada, e ha le sue buone ragioni. In parte dipende dall’incredibile capacità del suo governo di far infuriare i leader europei, che a volte è sembrata quasi patologica.

Al culmine della controversia internazionale per le vignette su Maometto, un ministro di Berlusconi ha indossato una maglietta che mostrava una caricatura particolarmente offensiva nei confronti del Profeta. (Il ministro poi si è dimesso, ma non prima che 14 persone perdessero la vita nel corso delle proteste anti-italiane scoppiate in Libia).

Nel 2003 lo stesso Berlusconi diede del “Kapò” a un europarlamentare tedesco, e soltanto la scorsa settimana un componente del suo gabinetto ha paragonato la legislazione olandese sull’eutanasia alle pratiche eugenetiche del nazismo. Anche l’alleato del governo Berlusconi, Tony Blair, è rimasto scosso dall’accusa che vede coinvolti il magnate italiano e la moglie di un ministro britannico in una storia di corruzione ed evasione fiscale. Accusa che entrambi, comunque, respingono.

Il vero pericolo che l’Italia di Berlusconi rappresenta per l’Europa, in ogni caso, è di natura economica. Sotto la sua guida, la quarta più grande potenza economica europea è diventata la più debole. Da un tasso di crescita dell’1.8 %, comunque anemico, l’Italia è scivolata allo 0.0 % dell’anno scorso. Niente! (in italiano nel testo, N.d.T.) “L’Italia affronta una crisi talmente seria e profonda”, ha detto ultimamente il neo-governatore della Banca d’Italia Mario Draghi, “da metterla in ginocchio”. E cresce la paura che il belpaese diventi sempre più una palla al piede per il resto dell’Unione Europea. “Non c’è dubbio che l’Italia sia il malato d’Europa”, afferma infatti l’economista Tito Boeri della prestigiosa Università Bocconi di Milano.

Ma la colpa è di Berlusconi? “Naturalmente no”, proclama lui, puntando il dito verso la crisi economica seguita all’attacco terroristico dell’11 settembre, pochi mesi dopo il suo insediamento. “L’Europa probabilmente ne ha risentito di più a causa della sua scarsa capacità di adattamento”, ha dichiarato lo scorso mese Berlusconi a Newsweek. Nella sua versione della storia, le restrizioni al debito pubblico e la crescente forza dell’euro sono il vero nocciolo del problema. “Quattro anni fa”, ha detto Berlusconi, “per comprare un euro bastavano 82 centesimi di dollaro. Oggi ci vuole 1 dolaro e 20. Cosa se ne evince? Che ogni prodotto europeo è più costoso del 50%”. Grazie a Bruxelles, “le nostre aziende hanno le mani legate, sono schiacciate e spremute dalla supervalutazione dell’euro, dalle tante regole a cui sono sottoposte e dalla competizione dei nuovi sistemi economici della Cine e dell’India che, cosa che più conta, fanno pure ricorso alla concorrenza sleale”.

Berlusconi non si spinge fino al punto di dire che porterebbe l’Italia fuori dall’euro, se fosse rieletto. Nelle sue interviste, pone la questione in maniera più obliqua: “Cercherò di convincere i miei colleghi europei ad aprire gli occhi e a cambiare, cosa che non è certo facile”. Malgrado la dura retorica di Berlusconi contro l’euro, lui conosce la triste realtà. Quando Roma aveva la lira, certo, poteva svalutare quando aveva bisogno di far ripartire le esportazioni. Ma questa tattica generava un’inflazione a due cifre, costringendo le famiglie e le piccole aziende a diventare dei piccoli speculatori, se proprio volevano sopravvivere. Il senso di incertezza che si creava era una delle ragioni dell’instabilità e della brevità dei precedenti governi. Il patto di stabilità sottoscritto per l’euro è rimasto in vigore durante tutta la legislatura di Berlusconi, e probabilmente ha aiutato a mantenerlo lì, se non altro costringendo il suo governo a mantenere la spesa pubblica sotto una parvenza di controllo. Berlusconi sa meglio di chiunque altro che il declino economico italiano probabilmente sarebbe più rapido in un clima di politiche maggiormente populistiche. “Il deficit andrebbe alle stelle”, dichiara Antonio Missiroli, analista capo all’European Policy Center di Bruxelles. “Si potrebbe andare a finire con una crisi di tipo argentino”.

Di fatto, l’Italia potrebbe finire in quel modo con o senza Berlusconi. All’uomo che ha fatto miliardi costruendo un impero mediatico privato piace presentarsi come il paradigma dell’intraprendenza e come il più grande amico delle imprese. E, per essere corretti, c’è da dire che il suo governo ha introdotto nuova flessibilità all’interno del mercato del lavoro e ha anche messo mano a una riforma delle pensioni. Ma quando parla del risultato finale, sembra veramente sbarellare. Quelli che suonavano come melodiosi grandi concetti nel 2001 – come il taglio delle tasse e della burocrazia – adesso hanno lo stridore di quella che alcuni chiamano “spaghetti economy”. Malgrado il declino economico, il Cavaliere non ha fatto il minimo tentativo per introdurre quel genere di serie riforme capaci invertire la tendenza. “Nei suoi cinque anni di governo non si è vista né una privatizzazione né una riforma strutturale”, dice Boeri. “La sua idea era solo quella di aumentare la spesa pubblica e di tagliare le tasse per rivitalizzare la domanda interna”. Ma non ha funzionato. Adesso, molti uomini d’affari europei temono che l’economia italiana si deteriori a tal punto da renderne necessaria la fuoriuscita dalla zona euro anche se Berlusconi non vuole veramente imboccare questa strada –anche se Prodi, Mister Europa, verrà eletto.

In un certo senso, l’Italia è la proverbiale mela marcia che rischia di guastare tutto il cesto. Vista la situazione, anche Prodi ci si trova coinvolto. Anche se dovesse vincere con un margine sostanziale, avrà il suo bel daffare per raggiungere gli obiettivi economici che egli stesso considera essenziali. Ed ecco il motivo: grazie alla nuova elegge elettorale imposta da Berlusconi, l’Italia è ritornata al vecchio sistema proporzionale che in passato aveva reso tanto instabili le coalizioni di governo. “Il paese sarà molto meno governabile”, afferma John Harper dell’Università John Hopkins di Bologna. Ciò nonostante, dolorose decisioni dovranno essere prese. Il deficit commerciale, come risultato dei costi alle stelle dell’energia e dell’aumento del costo del lavoro, per il 2005 ha superato i 10 miliardi di euro. Il rapporto deficit-pil, secondo le regole europee, dovrebbe mantenersi al di sotto del 3%. Alcune nazioni hanno oltrepassato questo limite, ma l’Italia, che si staglia intorno al 4%, è il paese nella situazione peggiore. E, come se non bastasse, il suo cattivo esempio rende più facile alle altre nazioni giustificare il loro sforamento.
Compariamo la crescita-zero dell’Italia con gli altri stati europei: la Spagna è al 3.4%, la Gran Bretagna al 1.8%, la Francia al 1.4%. Soltanto per gli standard italiani queste performance non possono essere considerate anemiche.

E proprio in un momento in cui gli europei hanno più bisogno di credere nel cambiamento, Berlusconi decide di contribuire a gettare discredito su quel tipo di riforme per un libero mercato che tanto potrebbero aiutare a rendere più dinamica l’economia italiana e del resto d’Europa. Gli piace citare i successi di Ronald Reagan in America e di Margaret Thatcher in Gran Bretagna, ma nei fatti è poco propenso a seguirne la via. L’economia e l’industria italiane sono così miserevoli, infatti, che la classe dirigente del paese è in aperta rivolta. Uno dei più aggressivi critici di Berlusconi è Diego Della Valle, presidente di una multinazionale di abbigliamento e di scarpe il cui marchio più famoso è la Tod’s. Siccome Della Valle lo aveva posto di fronte ai suoi fallimenti, Berlusconi lo ha pubblicamente definito come un imprenditore che “è uscito fuori di testa, visto che sostiene la sinistra”. E non si è fermato qui. Della Valle “deve avere qualche scheletro nell’armadio, deve avere molte cose da farsi perdonare”, è arrivato a dire il primo ministro italiano, facendo finta di dimenticare che lui per primo, nel corso del suo mandato, si è premurato, grazie al suo potere, di bloccare o indebolire i procedimenti giudiziari a suo carico. Dal canto suo, Della Valle lo ha liquidato come “un uomo sull’orlo di una crisi di nervi”.

Insomma, il primo ministro italiano appare sempre più isolato. “Stavolta Berlusconi corre da solo”, dice Gianfranco Pasquino, autore di una dozzina di libri sulla politica italiana. Non solo i suoi compagni di coalizione hanno preso le distanze da lui, ma addirittura hanno cominciato a farlo oggetto di una specie di cecchinaggio. I colleghi conservatori europei sono chiaramente a disagio. L’ex cancelliere tedesco Helmut Kohl, un uomo chiave della costruzione dell’Europa Unita e mentore dell’attuale cancelliere Angela Merkel, recentemente ha appoggiato l’avversario di Berlusconi, definendolo come “mio amico” e dicendo che “Prodi è capace di riportare l’Italia al ruolo che in Europa gli compete”. In caso che a qualcuno fosse sfuggita l’antifona, ha poi ribadito: “Voglio essere chiaro: sono qui per sostenere un grande europeo. Prodi è un esempio eccellente di un’Italia cosmopolita, legata alle proprie radici, ma capace di guardare oltre i propri confini”.

Stando così le cose, era naturale che Berlusconi volesse cercare conforto altrove. Il Presidente George W. Bush, per fare un esempio, lo chiama ancora “amico mio”. Per il suo vocale sostegno alla democrazia, per il suo parlare di libero mercato e per aver inviato migliaia di soldati italiani a supporto dell’occupazione guidata dagli Usa dell’Iraq, Berlusconi ha ottenuto una standing ovation dal Congresso di Washington – dominato dai Repubblicani – giusto il mese scorso. Un momento che ha segnato probabilmente il punto più alto di tutta la sua campagna elettorale, se non altro perché è veramente raro che gli italiani vedano i propri leader omaggiati in tale maniera. Per qualche giorno, la stampa, anche con un pizzico d’invidia, lo ha chiamato l’Americano. Nel frattempo però, il lunatico primo ministro iniziava il ritiro delle forze stanziate in Iraq, preoccupato che l’Italia diventasse un obiettivo dei terroristi come è stato per la Spagna nel 2004 o per il Regno Unito lo scorso anno.

Dopo che Berlusconi è tornato in Italia, amici e nemici si aspettavano che uscisse alla grande dal primo confronto televisivo con Prodi. Ma la sua performance è stata moscia. Da quel momento ha cominciato a lamentare una sciatalgia e a prendersi qualche giorno di forzato riposo.
A questo punto Berlusconi può recuperare il suo slancio e la sua buona salute? Rimangono soltanto pochi giorni di campagna elettorale. Il 3 aprile ci sarà l’ultimo scontro televisivo, nel quale il presidente del Consiglio combatterà per la sua sopravvivenza politica. La battaglia verrà seguita con estrema attenzione, sia in Italia che fuori. I detrattori che tifano per la sua caduta non possono non essere consapevoli, in ogni caso, che il superamento dell’era Berlusconi sarà soltanto il preludio di ulteriori problemi. Per troppo tempo la sua goliardia e le sue cadute di stile sono hanno fatto da diversivo ai gravi e crescenti problemi dell’Italia. Le difficoltà del paese sono davvero tanto formidabili che qualsiasi successore dovrebbe essere una specie di superuomo per sconfiggerle. Prodi è quel genere di uomo? O scoprirà che, nella sua battaglia per fare il lavoro che Berlusconi ha evitato di fare, gli italiani non vorranno seguirlo? La stabilità che Berlusconi ha introdotto nel panorama politico italiano potrebbe verosimilmente cedere di nuovo il passo alle politiche di frammentazione e lotta intestina del passato, con ben poco accordo su dove il paese debba andare e come ci dovrebbe arrivare. E proprio questa, alla fine dei conti, potrebbe essere la vera eredità di Berlusconi. Vinca o perda, l’Europa dovrà avere a che fare con lui e col suo lavoro per molti anni a venire.

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Di Franz (del 20/03/2006 @ 22:13:45, in 06-07 After Dublino, linkato 1462 volte)
Gira per la rete il link ad un sito che si chiama "dimmi chi sei ti dirò chi votare" http://www.dimmichiseitidirochivotare.it/
..finalmente un sito che ci chiarisce le idee su per chi votare..
incuriosito ho fatto il test un po' di volte.. facendo delle simpatiche costatazioni riportate in una email mandata ai creatori del sondaggio stesso che riporto di seguito:

----- Original Message -----
Sent: Monday, March 20, 2006 10:06 PM
Subject: strani questi sondaggi..

Salve,
secondo voi un sondaggio dove se rispondete a tutte le domande "
 
 
In bocca al lupo
Francesco Magagnino



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Di Franz (del 07/02/2006 @ 14:21:10, in 05-06 Pr.Leo. Dublino, linkato 1430 volte)
Anteprima - Clicca per ingrandire Scrivo per l'ultima volta dalla mia postazione di lavoro in IONA, secondo piano, IONA building, Shelbourne Road, Dublin 4! Oggi finisce il mio progetto Leonardo!! Venerdi' mattina alle 6.45 decollo in direzione Francoforte e da li per Verona dove arrivero' giusto giusto per il pranzo (spaghetti of course)! Di questa mia esperienza ho scritto poco sia sulla carta che sui bit! Chissa' il motivo.. anyway.. bye bye Dublin!! Trento-Verona life is coming back!!
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Di Franz (del 09/12/2005 @ 13:23:27, in 05-06 Pr.Leo. Dublino, linkato 1886 volte)
Anteprima - Clicca per ingrandire holland this week end!!! with davide and michele!! ole'!!
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Di Franz (del 02/12/2005 @ 17:05:29, in 05-06 Pr.Leo. Dublino, linkato 1480 volte)
Anteprima - Clicca per ingrandire

Anni fa, a proposito del giusnaturalismo e delle sue moderne implicazioni, avevi scritto: "Per laicismo s'intende il movimento di liberazione dai dogmi religiosi, dalle dottrine fondate sopra la rivelazione, non comprovate dall'esperienza né dedotte dalla ragione; e parallelamente il movimento di svincolamento dell'azione umana dall'obbedienza all'autorità religiosa in ciò che riguarda gli affari mondani". Ferma restando la rilevante portata storica e ideale di tale termine di riferimento, oggi in misura crescente sono discussi e non di rado differenziati i due concetti di laicismo e di laicità: il primo, interpretato talora in chiave "ideologica", come sinonimo di intransigenza anticlericale se non di intolleranza nei confronti delle fedi e delle istituzioni religiose, o come reviviscenza in campo giuridico-politico di classiche istanze giurisdizionalistiche; il secondo, fatto oggetto di più varie e sfumate valutazioni, fino a tentativi più o meno strumentali di appropriazione da parte di settori anche autorevoli della stessa cultura ufficiale cattolica. Qual è, in relazione pure alla citazione sopra riportata, il tuo giudizio sui due concetti, sulla loro valenza attuale, sulle ragioni o meno della loro eventuale distinzione?

Ritengo sia da mantenere la distinzione fra i due termini "laicismo" e "laicità". Il primo viene di solito usato con una connotazione negativa, per non dire addirittura spregiativa, per designare, come tu osservi giustamente, un atteggiamento d'intransigenza e d'intolleranza verso le fedi e le istituzioni religiose. Ma questo è proprio il contrario dello spirito laico, o, se si vuole, della "laicità" correttamente intesa, la cui caratteristica fondamentale è la tolleranza. Intendo parlare della tolleranza in senso positivo.

Uno spirito fortemente religioso può anche essere tollerante ma generalmente è tale in senso negativo, intesa la tolleranza unicamente come sopportazione dell'errore altrui per ragioni di convenienza, per opportunità pratica, come minor male rispetto alla persecuzione violenta. Per tolleranza in senso positivo s'intende il riconoscimento del diverso per rispetto di ogni fede quando sia sinceramente professata e osservata. La tolleranza positiva non è pura e semplice astensione dalla persecuzione ma è un atteggiamento fondato sulla convinzione che la pluralità delle credenze e delle opinioni, sia religiose sia politiche, in pacifica concorrenza fra loro, è una condizione essenziale per la sopravvivenza e il regolare sviluppo di una società democratica, vale a dire di una società i cui valori fondamentali, garantiti dalla osservanza di regole primarie, sono la libertà, l'eguaglianza e la nonviolenza.

Siccome il principio della tolleranza positiva è accolto anche dalle Chiese cristiane, che originariamente avevano accolto la tolleranza soltanto nel suo senso negativo, ritengo si possa affermare che lo spirito laico, conseguenza del processo graduale di secolarizzazione che ha caratterizzato la storia dell'età moderna, e che mi pare irreversibile, ha avuto una importanza decisiva nel dar vita alle società civilmente più progredite nel mondo contemporaneo. Queste società sono insieme democratiche - se pure in modo imperfetto e in alcune più imperfetto che in altre - ove vengono riconosciuti e protetti alcuni diritti fondamentali di libertà, tra i quali la libertà religiosa non meno che la libertà di non avere alcuna religione, e laiche, nel senso di non confessionali, in quanto non impongono una religione di Stato, e neppure, come è avvenuto nei paesi dove il partito comunista è andato al potere, un ateismo di Stato. Lo Stato laico, in quanto non confessionale, non è né religioso né ateo, né cristiano né non cristiano.

È uno Stato in cui dalle norme fondamentali del paese vengono garantite le condizioni essenziali per la convivenza pacifica di credenti e non credenti. Aggiungo, anche se dovrebbe essere ovvio, che uno Stato democratico non può essere che laico, non solo nel senso che uno dei diritti fondamentali riconosciuti e protetti dallo Stato democratico è il diritto di avere una religione o di non averne nessuna, ma anche perché è principio fondamentale dello Stato democratico, del resto riconosciuto da un articolo della nostra Costituzione, quello secondo cui l'appartenenza a una religione piuttosto che ad un'altra non può diventare un criterio di discriminazione fra cittadini.

Anche di recente, al Convegno di "Carta `89" (Roma, marzo 1991), è apparsa di grande stimolo e impegno la nozione di laicità, la cui definizione è stata pure circostanziatamente discussa tanto in rapporto alla "critica dell'alienazione religiosa" o alla critica della sacralizzazione del mondo (o del potere, o dell'uomo) quanto in vista del pieno ricupero di valori umani "positivi" o addirittura "prometeici". Ritieni possibile e utile, nell'odierna prospettiva, una definizione (o per lo meno un tentativo) abbastanza pregnante e "universale" della laicità? E, in caso affermativo, ne individueresti tra i caratteri salienti quello di "valore" o quello di semplice atteggiamento pratico o di metodo comportamentale aperto alla tolleranza e variamente motivabile in sede teoretica e morale?

Una volta definita la laicità prima di tutto come un metodo, ovvero come un insieme di regole formali per la pacifica convivenza di persone appartenenti a fedi diverse, e quindi come un metodo di libertà e di eguaglianza (libertà di credere e uguaglianza di fronte alla legge), si ripropone sempre anche la domanda se vi siano valori tipicamente laici, ovvero se si possa parlare di un'etica laica distinta da un'etica religiosa, o, con particolare riguardo alla religione dominante in Italia, cristiana. Che si possa parlare di un'etica laica, io ho sempre avuto i miei dubbi. Anzitutto perché vi sono diverse etiche laiche, come del resto vi sono diverse etiche religiose. Basti pensare alla distinzione tra etica della convinzione; o dei principi, ed etica della responsabilità, o delle conseguenze: distinzione che è stata applicata più volte nelle discussioni sulla liceità o meno della guerra del Golfo. In secondo luogo, se i laici e i religiosi possono vivere insieme nella stessa società pluralistica (e le società democratiche sono di fatto tutte pluralistiche), dipende dal fatto che gli uni e gli altri riconoscono gli stessi principi fondamentali, come il "non uccidere", il "non mentire", il "rispettare la parola data", che costituiscono un codice minimo di regole universali. Ciò che distingue un'etica laica da un'etica religiosa è principalmente il fondamento che le une e le altre danno ai precetti da seguire, in altre parole quale sia la ragione per cui si debbano osservare certi precetti e tenere di conseguenza certi comportamenti. Per il credente i precetti che è tenuto a seguire sono comandamenti divini, per il non credente sono dettami della retta ragione oppure desunti dall'esperienza.

Si tende a dire che un'etica religiosa è più rigoristica e una laica più permissiva. O almeno questa è una differenza che viene messa in particolare rilievo dai seguaci di Chiese stabilite. In realtà una differenza tra rigoristi e lassisti esiste anche nell'ambito della morale cattolica. Così avviene nell'ambito delle etiche laiche: l'etica kantiana è un'etica rigoristica rispetto all'etica utilitaristica. E poi, se è vero che nelle cose del sesso sono certamente più rigoristi i cattolici, nella vita civile, nella lotta contro il tiranno, i cattolici nel nostro paese sono stati più accomodanti di molti laici (in quella che è stata chiamata la "religione della libertà", e non a caso). Se è vero che il vizio di un lassismo senza principi può essere il cinismo, è altrettanto vero che il vizio del rigorismo condotto alle estreme conseguenze è il fanatismo. Chi oggi accusa le società secolarizzate di eccessivo permissivismo non ha tutti i torti, ma non ha tutti i torti il laico che accusa le società dominate da un forte spirito religioso di fanatismo. Chi vorrebbe tornare a vivere in una società, come è spesso quella di Stati islamici, in cui non vi è distinzione fra il fedele della religione e il cittadino dello Stato, e la lealtà alla religione imposta è condizione per essere un cittadino a pieno titolo?

Più che di un'etica laica si può parlare a mio parere di una visione laica della vita e della storia, distinta da una visione religiosa. Filosoficamente si suole chiamare la prima immanentistica, la seconda trascendente. Si può anche parlare, con un linguaggio più familiare, della differenza tra una concezione sacra o sacrale e una concezione profana o sconsacrata o, come si preferisce dire oggi, desacralizzata, della vita e della storia. Per meglio dire, secondo il cristiano accanto alla storia profana c'è una storia sacra, di cui l'unica guida sicura è la Chiesa. Per il laico la storia è una sola ed è la storia in cui siamo immersi, coi nostri dubbi non risolti, colle nostre domande inappagate, la cui guida è soltanto la non infallibile nostra ragione fondata sull'esperienza. È questa una storia che non rimanda ad altro, dietro la quale e sopra la quale non c'è altro mondo, di cui questo nostro mondo sia soltanto una prefigurazione imperfetta, uno specchio infedele o addirittura ingannevole, un riflesso accidentale. Ciò che muta nella visione del religioso e in quella del laico è il senso da dare alla storia. Nella visione del laico manca la dimensione della speranza ultima, ovvero della speranza in un riscatto, in una redenzione, in una palingenesi, nella salvezza. E non ci può essere salvezza se non c'è stata neppure la colpa originaria, da cui tutta l'umanità sarebbe stata sin dall'origine e nei secoli dei secoli segnata. La storia per il laico non si svolge tra una colpa originaria e una redenzione finale. È una storia di eventi di cui è possibile, ma non sempre, cercare non le colpe ma le cause, perché soltanto dopo aver trovato le cause si possono cercare i rimedi. È una storia di cui è inutile cercare un senso ultimo, perché un senso ultimo non c'è. Qual è, per fare l'esempio di un evento che sta accadendo mentre scrivo queste pagine, il senso dello spaventoso ciclone che ha sconvolto una regione come il Bangladesh e fatto strage di migliaia e migliaia di uomini? So bene che porre una domanda di questo genere può anche creare sgomento. E può anche essere oggetto di facili accuse da parte di un credente per cui "non muove foglia che Dio non voglia" e tutto ha un senso, anche la strage d'innocenti provocata da un terremoto o da una pestilenza. Ma il laico non può rinunciare allo spirito critico, che è il segno della sua perplessa e tormentata umanità. E per uno spirito critico non ha alcun senso, mi si permetta il bisticcio, porsi il problema del senso di un evento come un cataclisma - imprevedibile, imprevisto, e terribile non soltanto nelle sue conseguenze ma anche nella sua incomprensibilità - dal punto di vista di una storia che si proponga di capire non soltanto la causa ma anche la ragione di tutto ciò che accade.

Con richiamo a quanto sopra, e più specificamente alle vicende italiane dall'unità ad oggi (per non risalire a radici anche più arretrate nel tempo!), ritieni conciliabile l'asserita laicità dello Stato e della scuola pubblica con la permanenza del nostro o di qualunque regime concordatario?

Uno Stato laico dovrebbe rifiutare il regime concordatario. Tra Stato laico e regime concordatario c'è incompatibilità dal punto di vista dei principi. Non c'è incompatibilità nella pratica, dove i principi sono spesso accantonati per dar luogo a situazioni di compromesso in determinati contesti storici, dove l'applicazione del principio è resa difficile, come avviene in Italia, dalla presenza di un partito cattolico che ha da quasi mezzo secolo la maggioranza relativa e ha guidato quasi tutti i governi che si sono succeduti dalla Liberazione in poi. Oggi come oggi, una battaglia per l'abolizione del Concordato è una battaglia perduta in partenza. Ne è la miglior prova l'enorme difficoltà che si è rivelata in Italia di far applicare correttamente le clausole del Concordato riguardanti l'insegnamento religioso, difficoltà derivante proprio dalla presenza di un forte e sino ad ora egemone partito democristiano.

Norberto Bobbio, Intervista del giugno 1991, in Av. Vv., Laicità. Domande e risposte in 38 interviste, a cura del Comitato torinese per la laicità della scuola, Claudiana, Torino 2003, pp. 53-58.

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Di Franz (del 24/11/2005 @ 19:42:55, in 05-06 Pr.Leo. Dublino, linkato 1565 volte)
Anteprima - Clicca per ingrandire Leggevo questa mattina sul the Guardian e questa sera anche su Repubblica (per pochi minuti) che la chiesa a perso un'altra volta; io credo che sia proprio cosi'.. ha perso!! perche' quando si dicono certe cose, significa che e' prevalso un ragionamento senza senso.. e si e' quindi perso! e con lei perdiamo tutti, soprattutto quelli che con l'AIDS ci devono fare i conti!
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Daniela Mercury cancellata dal Natale in Vaticano

da KataWeb Musica di Paolo Gallori (24 novembre 2005)

Già annunciata tra gli artisti internazionali del prossimo Concerto di Natale in Vaticano, la brasiliana Daniela Mercury, artista indipendente, impegnata nel sociale e vicina alla Chiesa Cattolica di Bahia, è stata cancellata dal cast. La ragione: aver messo la sua immagine e la sua musica a disposizione di una campagna per l'uso del preservativo come strumento di prevenzione dell'Aids promossa dal Ministero della Salute brasiliano.

Daniela, tra l'altro ambasciatrice dell'Unicef e dell'Unaids, il programma delle Nazioni Unite per la lotta all'Aids, ha diffuso una nota ufficiale in queste ore, lamentando l'esclusione: "Sono molto delusa di non poter rappresentare il mio Paese al Concerto in Vaticano e di non potermi esibire assieme a grandi artisti provenienti da tutto il mondo. Ma riaffermo il mio diritto di dissentire dalla posizione della Chiesa in quello che dice rispetto all'uso del preservativo come forma di prevenzione delle malattie sessualmente trasmesse, come l'Aids. Per me il preservativo è uno strumento di protezione della vita".

Secondo il quotidiano brasiliano O Globo, la Mercury era stata invitata dal Vaticano cinque mesi fa. Il nome dell'artista figurava ancora in elenco lo scorso 11 novembre, quando la stampa era stata convocata per il 2 dicembre alla conferenza stampa di presentazione del Concerto di Natale in Vaticano, spettacolo che si terrà il giorno successivo nella consueta ambientazione della Sala Nervi. Era stato persino diffuso il contenuto della sua esibizione: le canzoni Águas de Março, Canto da Cidade oltre a due brani di musica sacra con l'accompagnamento dell'Orchestra Sinfonica di Palermo. Solo in questi ultimi giorni la Curia Vaticana deve aver scoperto il "misfatto" di cui si è resa colpevole la Mercury.

E' accaduto nel febbraio scorso, durante i giorni del Carnevale, quando il sesso occasionale diventa normalità in tutto il Brasile. Sugli schermi televisivi e alla radio passa uno spot musicato, cantato e interpretato da Daniela Mercury assieme al suo trio elettrico. Lo slogan: "Vista-se! Use sempre camisinha!" (Stai attento! Usa sempre il preservativo). Il 7 febbraio Daniela e il suo trio scendono addirittura nelle strade di Salvador de Bahia, indossando magliette con lo slogan della campagna pro-preservativo impresso sul petto, percorrendo il circuito Barra-Ondina.

Torna così il ricordo di Lauren Hill, la cantante afroamericana che nel 2003 aveva accettato l'invito al Concerto di Natale in Vaticano e che dal palco della sala Nervi aveva scandalizzato le più alte autorità spirituali della Chiesa Cattolica invitandole a chiedere perdono per i crimini commessi negli Usa dai preti pedofili. Momento che fu accuratamente tagliato dall'edizione televisiva dello show. La Chiesa Cattolica chiede all'Uomo di salvarsi dall'Aids con la castità e combatte l'uso del preservativo. Ma ha imparato ad apprezzare, a sue spese, il valore della "prevenzione". Ecco perché la Mercury non ci sarà.


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